Stato dell’arte e traiettoria di sviluppo per l’impact investing per i capitali privati italiani

L’intervista ad Andrea Cingoli, esperto di finanza sociale, approfondisce il potenziale dell’impact investing in Italia e le leve d’ingaggio per gli HNWI, delineando il ruolo che possono giocare le private bank e gli altri operatori professionali per lo sviluppo del settore.

Stato dell’arte e traiettoria di sviluppo per l’impact investing per i capitali privati italiani

Può riassumerci lo stato dell’arte e il potenziale per l’Italia degli strumenti di impact investing?

Dobbiamo partire da alcune premesse. In primo luogo, dalla constatazione che i capitali privati in Italia rappresentano una ricchezza: il nostro è uno dei Paesi con il maggior risparmio da parte di privati e una concentrazione di capitali nella fascia high-net-worth (>1 milione di euro) molto superiore alla media. La seconda considerazione è che in passato questa ricchezza veniva finalizzata, quasi integralmente, a strumenti di investimento conservativi come obbligazioni e titoli di stato – ma le attuali dinamiche dei mercati finanziari (caratterizzati da tassi di rendimento bassi, rischiosità implicita in tutti gli strumenti, e di conseguenza la necessità di assumere rischi per garantirsi degli interessi accettabili) stanno facilitando l’aumento di interesse degli investitori ad allocare parte dei loro risparmi in economia reale. Questi fenomeni stanno fornendo sempre più supporto alle attività di venture capital e di impact deal (vale a dire di aggregazioni spontanee di investitori).

Quello che ho osservato è che, nel momento in cui si esce dai contesti tradizionali, gli investitori hanno spesso motivazioni che in parte significativa si basano su criteri razionali e di carattere economico (ad esempio in termini di due diligence e di valutazione di rischio dell’investimento); ma esiste anche una forte componente legata all’impatto dell’iniziativa, componente che può spingere a investire anche in progettualità in linea di massima più rischiose se valutate unicamente da un punto di vita profit, ad esempio portate avanti da start up. Grazie a questa leva il tema dell’impact investing ha una presa importante nel mondo degli HNWI: la disponibilità di capitali unitamente all’attenzione ad aspetti non unicamente finanziari nella valutazione rappresentano una piattaforma molto promettente per il settore degli investimenti a impatto sociale.

 

Dalla sua esperienza quali sono le principali motivazioni e leve d’ingaggio per gli HNWI dinanzi all’offerta di investimenti impact?

Se ci soffermiamo sulla connotazione che molto spesso caratterizza il comportamento di questi individui in Italia, dobbiamo riconoscere come esso sia fondamentalmente legato al contesto culturale del nostro Paese, in un’ottica di localismo, e al fatto che molta della ricchezza non si concentra nella grandi metropoli ma risulta distribuita sul territorio: questo porta a privilegiare situazioni che rientrano nell’ambito del contesto economico e territoriale dove gli HNWI vivono – un fenomeno che spesso si osserva anche a livello filantropico, dove il supporto a istituzioni locali viene spesso fornito sulla base della convinzione che le proprie donazioni possano avere un’efficacia maggiore perché elargite a un ente di cui si vede operatività e progressi. Questo rappresenta una prima linea guida che dovrebbe aiutare chi propone questo tipo di investimenti – un punto importante dato che la maggior parte delle volte gli impact investments riguardano mercati emergenti che non sempre riescono ad attrarre l’interesse degli investitori.

Un secondo livello di riflessione parte dalla domanda su quanto questi investitori riescano a cogliere l’impact investing nella sua completezza, nelle sue componenti finanziarie e di impatto sociale. Su questo tema a mio avviso è ancora necessaria un’evoluzione culturale nel settore italiano, aiutando a costruire e rafforzare la sofisticazione di chi detiene grandi capitali: normalmente gli investitori tendono a muoversi in un’ottica sostanzialmente profit-oriented (basata quindi su ritorni finanziari, dove l’impatto sociale assume la forma di “add-on”) o al contrario si concentra puramente sull’impatto sociale in una logica quasi filantropica – questa è forse una delle ragioni per cui, spesso, le proposte di impact investment a investitori privati non hanno successo.

Un aspetto interessante riguarda la possibilità di decorrelazione dei portafogli di investimento rispetto alle asset class tradizionali più legate all’andamento dei mercati finanziari – un elemento sicuramente importante ma che viene normalmente addotto da investitori più sofisticati, che magari si rivolgono a family office o comunque consulenti professionali per indirizzare le proprie scelte sulla base di elementi razionali.

Alla luce di questi driver, l’offerta di investimenti impact dovrebbe essere orientata a mio avviso su progetti italiani con una certa vicinanza alle problematiche percepite fortemente da investitori privati – quali ad esempio l’integrazione del welfare su base locale, la valorizzazione del patrimonio artistico e un altro tema di grande interesse, vale a dire la valorizzazione del capitale umano in termini di ricerca scientifica, medica, farmaceutica. Questi temi, proposti a imprenditori dei distretti industriali, sono facilmente percepibili e vicini a quella componente decisionale legata all’impatto dell’iniziativa, di cui parlavamo, che deve essere sollecitata affinché questi investimenti vengano presi in considerazione.

 

Quale ruolo possono e devono giocare le private bank in questo scenario?

Il settore del private banking nel nostro mercato sta evolvendo da una tradizione di modelli di gestione del risparmio verso un’offerta di consulenza più completa che tocca altre dimensioni del patrimonio del cliente privato. In quest’allargamento del raggio d’azione del private banking, la crescita delle dimensioni in ambito filantropico e di investimento sociale è una delle tematiche che dovrà essere oggetto di grande attenzione da parte degli istituti.

Al momento vedo una situazione in cui sono ancora molto limitati gli esempi dal punto di vista del numero e della proposizione; spesso si tratta di soluzioni semi-filantropiche di posizionamento del brand nei confronti della clientela HNW più che di vere e proprie proposte consulenziali funzionali all’investimento in economia reale. C’è ancora un po’ di strada da fare – ed è comprensibile dato che i tempi dell’impat investing sono ancora relativamente nuovi anche sui mercati più avanzarti.

La mia prospettiva è che si possano ipotizzare due modelli principali nel private banking; il primo consiste nell’inserire soluzioni di strumenti già esistenti (quali fondi o bond emessi da banche di investimento) nel proprio pacchetto interno di servizi. Questo è un obiettivo abbastanza semplice e rappresenta un framework già usato per altri strumenti finanziari; la difficoltà sul breve termine è che, attualmente, non esiste su questo fronte un gran numero di consulenti istituzionali che possano offrire alle banche una pipeline di strumenti, quindi non è facilissimo individuare le iniziative già esistenti.

La seconda strada, un po’ meno finanziaria, si ricollega di più all’investimento reale e ai club deal, offrendo la possibilità all’investitore di partecipare direttamente a iniziative imprenditoriali con impatto sociale (attraverso debito o equity). Un tema fondamentale riguarda l’offerta d’iniziative – a mio avviso ancora molto ristretta. Questo è un fattore che rende più difficile l’avvicinamento degli investitori privati: in un settore nuovo, che richiede sofisticazione a livello sociale e finanziario, un universo limitato di soluzioni investibili rende ancora più difficile creare consenso e crescita.

Per facilitare la crescita del settore, ritengo sia necessaria la creazione di un’offerta consulenziale che aiuti chi ha iniziative a impatto a costruire in maniera adeguata dei prodotti o delle idee che possano essere poi portate al mercato dei privati: a oggi tali iniziative sono, spesso, organizzate in maniera non presentabile o comprensibili soltanto per il mercato degli investitori istituzionali (come i fondi o le fondazioni bancarie) che, rispetto agli investitori privati, hanno le capacità per capire la complessità di questi investimenti. Vedo quindi uno spazio prezioso per operatori professionali che possano aiutare ad aumentare il numero di soluzioni potenzialmente investibili.

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