Motore del Mese: il Center for Violence Free Relationships
In un’intervista con Matt Huckabay, Executive Director del Center for Violence-Free Relationships, analizziamo I benefici organizzativi – ed economici – e le trappole da evitare in un processo di Theory of Change (ToC).
18 Aprile 2016
Costituito nel 1980, Il Center for Violence-Free Relationships lavora per eradicare il fenomeno della violenza domestica e sessuale nelle famiglie e comunità della California. Nel 2010, il Center ha avviato un grande processo di revisione per aumentare la propria capacity e produrre un più profondo impatto sociale. Questo lavoro è culminato nella realizzazione di una vasta Theory of Change all’inizio del 2013, centrata sull’obiettivo di interrompere i ciclici fenomeni di violenza interpersonale.
Un processo che ha richiesto tempo e risorse, e un forte impegno da parte della leadership. Ma ne è valsa la pena. Il Center ha aumentato la propria efficacia complessiva – nonché la propria abilità nel dimostrare i risultati conseguiti ai propri stakeholder, guadagnando un vantaggio competitivo in un mercato del fundraising sempre più sovraffollato.
Abbiamo esaminato le dinamiche del Center, caso esemplare per descrivere benefici ed errori da evitare, con il promotore di questo processo: Matt Huckabay, Executive Director del Center for Violence Free Relationships e Leap Ambassador.
Come vi siete resi conto che focalizzarsi sugli output non era più sufficiente? Recentemente in un webinar sul Performance Imperative, ha detto: “Avevamo bisogno di profondità, non di quantità'”. Ci piacerebbe approfondire il concetto.
Assistevamo impotenti a un ciclo infinito di violenza domestica che continuava a ripetersi: gli utenti venivano da noi, ricevevano dei servizi – solo per finire di nuovo in situazioni conflittuali violente. Per me è stato chiaro che i nostri tanti servizi, rivolti a tante persone, non producevano gli effetti misurabili e l’impatto che avevamo in mente. Dovevamo comprendere cosa servisse veramente ai nostri clienti per interrompere questo ciclo di violenza familiare.
Il fatto che gli utenti tornino più e più volte è qualcosa che spesso il nostro settore ha sbandierato come giustificazione per richiedere sempre più contributi ed erogazioni filantropiche. A mio avviso se le persone ritornavano dopo aver ricevuto i nostri servizi ci trovavamo davanti un indicatore del nostro fallimento come organizzazione – non qualcosa da mostrare ai nostri finanziatori per avere ancora più risorse che non sarebbero poi state efficaci. Perché di questo si trattava: stando così le cose, i soldi dei nostri donatori non facevano altro che sostenere servizi che non avrebbero prodotto outcome significativi per i beneficiari finali.
Un giorno la porta si aprì e mi trovai davanti ad una giovane mamma con un bambino. Dietro di lei sua madre, e ancora dietro la nonna. Tre generazioni di donne della stessa famiglia, tutte con episodi di violenza domestica. In braccio la quarta generazione. In quel momento mi dissi: non sta funzionando. E fu allora che compresi che dovevo trovare un modo per cambiare le cose.
Come si è modificato il vostro modo di lavorare a seguito del processo di Theory of Change?
La maggiore trasformazione è stata nel focalizzarsi esattamente sulla popolazione target e sull’obiettivo finale atteso. Durante il processo di definizione della Theory of Change, abbiamo compreso che la nostra missione non poteva essere “eliminare la violenza domestica” – affermazione sproporzionata, come quella di tante organizzazioni, che implica porre finire a una problematica enorme senza avere realmente le risorse e l’abilità per impattare. In realtà il nostro obiettivo doveva essere interrompere il passaggio ciclico della violenza da una generazione alla successiva. Una volta identificato l’obiettivo, abbiamo fatto un passo indietro per definire i traguardi e gli indicatori che avremmo dovuto osservare nei nostri utenti, al fine di assicurarci che stessero procedendo sulla giusta rotta, e stabilire modelli per misurare con attenzione il grado di raggiungimento di questi progressi.
In termini di benefici, quali sono i principali riscontri positivi che avete registrato come organizzazione?
In primo luogo, grandi passi avanti in termini di efficienza ed efficacia organizzativa: con una Theory of Change complessiva e una per progetto, le conversazioni da cui scaturiscono opportunità si svolgono con semplicità. Si tratta di verificare quali opportunità di sostegno sono allineate con la nostra ToC. Se non lo sono, lasciamo perdere: non inseguiamo più le risorse, cercando di creare progetti quasi ad-hoc per rispondere a specifiche richieste o bandi. In passato, mandavo circa 30-40 application ogni anno – adesso, in media, mi attivo 4 volte l’anno, ma ogni volta siamo ben posizionati ed equipaggiati per ottenere l’erogazione.
Inoltre, ora so chi nel mio staff è più efficace a seconda del tipo di clienti e dei problemi; so quali sono i bisogni principali dei nostri utenti e in questo modo posso allocare risorse per rispondere a problematiche specifiche… In sintesi, abbiamo chiarezza di mission-programmi-e attività che implementiamo.
In passato, mandavo circa 30-40 application ogni anno – adesso, in media, mi attivo 4 volte l’anno, ma ogni volta siamo ben posizionati ed equipaggiati per ottenere l’erogazione.
In secondo luogo parliamo di posizionamento esterno: adesso veniamo percepiti a livello nazionale, non solo nel nostro specifico ambito di competenza, come early-adopters nel settore non profit del modello della Theory of Change, in particolare per le organizzazioni più piccole. Quindi ora siamo in grado di lavorare anche come consulenti, aiutando altre organizzazioni a muoversi in questa direzione. La nostra distintività è molto aumentata, veniamo visti come organizzazione di supporto con con competenze trasferibili ad altre realtà, anche al di fuori del nostro campo.
Recentemente, ad esempio, la Provincia ci ha contattato chiedendoci di realizzare una ToC per risolvere il problema dei senza fissa dimora; abbiamo messo insieme un team e ci stiamo lavorando. Il nostro brand ha un’attrattività nuova e le opportunità a nostra disposizione si sono moltiplicate.
Un altro esempio: siamo ritornati dalla Blue Shield of California Foundation, che inizialmente aveva investito nel nostro capacity building con un grant di $100.000, dicendo: “Abbiamo identificato altre non profit che si occupano di violenza domestica e che vorrebbero introdurre il performance management nelle loro organizzazioni. Noi possiamo aiutarli a farlo”. Da lì abbiamo ricevuto $650.000 per affiancarle e sviluppare la loro Theory of Change. È una cosa che sappiamo fare bene, perché non capitalizzarla? In questo modo, abbiamo aperto un nuovo filone di ricavi per l’organizzazione.
Per la vostra esperienza personale, quali sono gli errori da evitare in un lavoro di ripensamento organizzativo come questo?
In primo luogo non bisogna sottovalutare il paradigma culturale dell’organizzazione: bisogna avere degli innovatori interni, potremmo dire delle “cheerleader”, che operano come ambasciatori con il resto dello staff. Se non siete consapevoli della cultura in cui vi trovate, e non investite tempo per cambiarla, questo processo non potrà attecchire. È prioritario quanto lo sviluppo del sistema stesso.
Il secondo punto è capire che serve tempo: implementare un software per misurare l’efficacia dei propri servizi e monitorare gli outcome ha richiesto 8-12 mesi, dalla ricerca all’uso. Integrare compiutamente il concetto di lavoro evidence-based richiede anni, ed è un processo costante. Quando abbiamo cominciato la trasformazione dell’organizzazione, identificando quali programmi avremmo interrotto o ridimensionato, abbiamo fondamentalmente ristrutturato il nostro modo di operare. Abbiamo cominciato lentamente e in maniera incrementale: si trattava di toccare e mettere a punto molte aree operative, da “come gestiamo i nuovi arrivi” a “il nostro staff è abbastanza competente per un sistema cloud?”.
Abbiamo seguito il processo in maniera precisa, un passo alla volta, aggiustando un punto prima di passare al successivo: il nostro intento non era fare mille rivoluzioni senza gestire la transizione. Chiunque può imbarcarsi su questo sentiero, ma il punto decisivo consiste nell’impegnarsi a gestire il processo per cambiare realmente le modalità con cui un’organizzazione opera.
Chiunque può imbarcarsi su questo sentiero, ma il punto decisivo consiste nell’impegnarsi a gestire il processo per cambiare realmente le modalità con cui un’organizzazione opera.
Com’è riuscito a promuovere il processo internamente, per avere tutti “onboard”, in un lavoro che sostanzialmente implica una profonda riconfigurazione del modo in cui un’organizzazione opera e concepisce sé stessa e il proprio lavoro?
Con il nostro Board è stato un ragionamento economico. I finanziatori vogliono sapere se i loro soldi vengono usati in modo accurato – e questo non significa più “quante persone avete aiutato?” ma piuttosto “cos’è successo alle persone che avete aiutato?”.
È stato facile mettere insieme dati e mostrare come sempre più funder richiedessero dati di performance alle organizzazioni sostenute. Inoltre, mi sforzai di evidenziare come la competizione per le risorse disponibili stesse aumentando mentre l’ammontare di queste ultime, al contrario, stesse prosciugandosi: nella nostra area, ad esempio, i finanziamenti che erano sempre stati esclusivo appannaggio delle ONP vennero improvvisamente estesi anche ai distretti scolastici. Questo significava un aumento del 200% del numero di competitor per le stesse risorse. È diventata quindi una conversazione su come essere competitivi nel nostro mercato: una decisione di business su come differenziare il nostro brand e distinguerci per mantenere – e auspicabilmente allargare – la nostra quota di mercato, posizionandoci come i primi ad adottare un sistema di performance management, rendicontando non solo il numero di servizi erogati ma la nostra efficacia complessiva nel farlo.
La competizione per le risorse disponibili aumentava mentre l’ammontare di queste ultime stava prosciugandosi. È stata una decisione di business su come differenziare il nostro brand e distinguerci per mantenere – e auspicabilmente allargare – la nostra quota di mercato
Con il nostro staff è stato un discorso diverso: si tratta per lo più di persone fortemente motivate che vogliono aiutare i nostri utenti. Abbiamo dovuto trasmettere con delicatezza che quanto fatto fino a quel punto non era abbastanza – e i dati sono stati fondamentali per fornire una prova concreta a supporto.
Ad esempio decisi di coinvolgere il mio staff in un sondaggio chiedendo loro di identificare i bisogni principali degli utenti. Dopo, chiesi di rifare lo stesso ma mettendosi nei panni degli utenti. In entrambi i casi, mi restituirono 8-9 aree fondamentali. Dopo somministrai lo stesso questionario agli utenti: i bisogni che evidenziarono furono 4. La metà. Quello è stato il punto di avvio per introdurre la necessità di lavorare sui dati quotidianamente. Nei mesi successivi, affiancammo lo staff per dimostrare come i dati potessero essere d’aiuto nel lavoro quotidiano – ad esempio per mostrare agli utenti i risultati e i progressi compiuti e rafforzare la loro determinazione a seguire il programma.
Il 2014 ha segnato il più alto livello di donazioni in USA negli ultimi 40 anni. Ciò nonostante, la percentuale di donazioni non ha superato la storica soglia del 2% del PIL. Ritiene che l’abilità di alcune ONP “virtuose” nel dimostrare il loro impatto possa aiutare ad abbattere questa barriera decennale?
Si, lo farà. Lo vediamo quando ci rivolgiamo ai nostri donatori. Grazie ai nostri investimenti, siamo in grado di sapere quali donatori sono più sensibili a quali programmi e di approcciarli in modo specifico, utilizzando i dati di outcome per mostrare l’enorme ritorno sull’investimento che otterrebbero sostenendoci.
Dire “Abbiamo raggiunto 300 bambini con il nostro second-generation program” è ben diverso da “Abbiamo ridotto del 35% il livello di stress post-traumatico di 20 bambini e siamo stati in grado di mantenere questo risultato per un anno”.”Ci daresti le risorse necessarie per fare in modo che un altro bambino smetta di farsi del male?” è una storia del molto differente rispetto a chiedere lo stesso ammontare per inserire un utente in più nel programma.
Investire nella nostra capacity ci sta aiutando a spostare la mentalità dei donatori verso una filantropia orientata ai risultati – e, in sostanza, verso la creazione di un reale impatto sociale.
Per ulteriori informazioni http://thecenternow.org