Risk Management nella Filantropia: spunti per i soggetti erogatori
Con Maya Winkelstein, Executive Director di Open Road Alliance, analizziamo un donor-advised fund che opera con un modello filantropico unico per aiutare non profit ed enti erogatori a superare gli imprevisti che mettono frequentemente a repentaglio la riuscita di progetti potenzialmente di impatto
26 Giugno 2018
Open Road Alliance è un’iniziativa filantropica privata fondata nel 2012 dalla psicologa e filantropa Dr. Laurie Michaels per rispondere all’assenza di pratiche di risk management nel settore filantropico.
Negli anni questo Donor-Advised Fund ha lavorato con le principali fondazioni e donatori pubblici a livello globale come sorta di “assicurazione dell’impatto“, fornendo donazioni e prestiti per rispondere agli ostacoli inattesi che frequentemente si verificano nei progetti sociali, mettendo a repentaglio la loro riuscita. Ciò nonostante, normalmente gli enti erogatori non si assumono questa responsabilità a causa di poca consapevolezza, meccanismi standardizzati di definizione dei budget o procedure decisionali eccessivamente rigide: secondo gli ultimi report stilati da Open Road Alliance, 1 progetto su 5 andrà incontro a un ostacolo imprevisto nel corso dell’implementazione; solo il 17% dei funders prevede una riserva di budget per eventi inaspettati; e il 76% degli enti erogatori non richiede informazioni sui potenziali rischi nella fase di raccolta e valutazione delle proposte progettuali.
Ne ho discusso con Maya Winkelstein, Executive Director di Open Road Alliance, per analizzare un modello filantropico unico – che in sintesi lavora nella colonna delle assumptions del Logical Framework – che cerca di fornire una risposta molto semplice che una strategica filantropica efficace dovrebbe considerare: “come possiamo essere sicuri che progetti potenzialmente d’impatto vengano portati a termine?”
Qual è l’obiettivo principale di Open Road Alliance e come è nato questo modello filantropico innovativo?
Si tratta di una storia interessante che prende origine dalla nostra fondatrice Laurie Michaels. Quando scelse di avviare un proprio disegno filantropico, decise che non si sarebbe focalizzata su un tema o su un Paese: nel corso della propria vita aveva viaggiato a lungo e non si sentiva di privilegiare un’area geografica o tematica piuttosto che un’altra. Sentiva che per lei non era la strada giusta e credeva in una strategia di ecosistema. Le occorsero alcuni anni per maturare la propria decisione, durante i quali si confrontò con amici e professionisti del settore cominciando a sentire quelle particolari storie familiari per chi lavora nel campo non profit: “Abbiamo speso sei mesi per ottenere $500.000 da un donatore per un nuovo macchinario per la nostra clinica in Kenya, e ora ricevo una e-mail che mi dice che tutto l’equipaggiamento è bloccato alla dogana statunitense perché il donatore non vuole spendere altri $25.000 in tasse di esportazione”. In pratica, quel genere di situazione in cui una somma relativamente modesta potrebbe risolvere un problema che un’esternalità sociale e finanziaria molto più ampia divenne l’idea di Open Road e Laurie cominciò a pensare che avrebbe potuto provare a risolvere quella criticità.
Così iniziammo insieme a definire una strategia e ci rendemmo conto in fretta che non solo l’approccio era fattibile ma che avrebbe coperto una nicchia molto necessaria e scoperta nel mercato filantropico. Si trattava di una scelta coraggiosa e non improntata a soddisfare l’ego personale: Laurie non ha mai voluto finire in prima pagina, non ha mai neanche pensato a dare il proprio nome all’organizzazione. Ovviamente questo dipende dalla personalità ma rispondeva anche a una consapevolezza intelligente: questo modello ha un grande effetto leva – l’ammontare medio di risorse che un altro ente erogatore ha investito nel progetto è dieci volte ciò che noi allochiamo per salvarlo.
Puoi parlarmi del vostro approccio filantropico e delle principali differenze con i modelli erogativi tradizionali?
Open Road fornisce risorse a progetti in corso di implementazione che si trovano a dover affrontare un ostacolo imprevisto. Operiamo attraverso due modalità: un fondo donazioni e uno prestiti.
Al momento siamo in una fase di forte espansione, quest’anno ci aspettiamo di erogare circa $15 milioni tra donazioni e prestiti, mentre negli ultimi cinque anni Open Road a elargito un totale di $13.589.270 con una leva di $150.840.897 per fondi originariamente allocati sui progetti. Il nostro investimento medio è di circa $80.000 per le donazioni e $225.000 per prestiti.
In realtà non abbiamo un budget fisso definito a inizio anno e ci muoviamo in base alla domande: come siamo soliti dire, “i problemi non hanno scadenze”, non possiamo ragionare con cicli erogativi prestabiliti. Per questa ragione la flessibilità è centrale nel nostro lavoro e si riflette nella nostra struttura: è uno dei motivi per cui abbiamo scelto di operare come Donor-Advised Fund per minimizzare gli aspetti procedurali che richiedono tempo e complessi meccanismi di governance. Per essere efficaci dobbiamo poter intervenire sempre in tempi molto rapidi.
“La nostra fondatrice Laurie Michaels comprese che esisteva un gap nel mercato filantropico: fornire supporto a progetti in corso di implementazione che si trovano a dover affrontare ostacoli imprevisti”
Qual è la modalità che utilizzate per identificare i progetti in linea?
La nostra pipeline è alimentata per lo più da referenze, per esempio di non profit con cui abbiamo collaborato che indirizzano a noi quelle organizzazioni che necessitano aiuto. Ma i nostri principali referenti sono altri finanziatori e fondazioni che si rivolgono a noi perché una delle loro non profit beneficiarie è nei guai e non possono aiutarla – perché non hanno al loro interno le procedure necessarie a stanziare fondi ad hoc o tutte le risorse sono già state elargite a inizio anno. Oppure hanno le risorse ma i meccanismi di governance sono molto rigidi – ad esempio il board approva le donazioni in due momenti l’anno, vale a dire non in tempo per fronteggiare la crisi. Abbiamo lavorato con le principali fondazioni e con i donatori pubblici di tutto il mondo per questo genere di situazioni.
“I nostri principali referenti sono altri finanziatori e fondazioni che si rivolgono a noi perché una delle loro non profit beneficiarie è nei guai e non possono aiutarla”
Qual è il processo di valutazione dell’esistenza del rischio e per decidere l’eventuale intervento?
Il primo criterio sine qua non è che il progetto sia in corso di implementazione e completamente finanziato: ciò per noi significa che è già stata effettuata una due diligence della non profit da parte di un altro finanziatore e che noi possiamo concentrarci sul problema in sé, sulla base di due principali domande:
- Perché il problema è inatteso? Se la criticità rappresenta una sorpresa per l’organizzazione ma avrebbe dovuto essere prevista in una progettazione ragionevolmente accurata non stanziamo il supporto. Sosteniamo solo progetti dove il problema non poteva essere evitato, ad esempio in caso di avversi eventi meteorologici, un’alluvione nella stagione secca, un incendio, un’azione politica, la rottura di un pezzo di strumentazione o di equipaggiamento, ecc. In pratica situazioni che succedono di continuo e che non c’è modo di evitare.
- Qual è la soluzione proposta? Step 2, vogliamo assicurarci che la soluzione proposta dalla non profit risolva davvero il problema, non lo posponga. Ad esempio, se il bisogno attuale dell’organizzazione è ottenere i fondi per pagare un insegnante inserito nel progetto, vorremmo analizzare se lo stesso problema si ripresenterà di qui a tre mesi. Altre volte è molto semplice, come nel caso di una non profit che stava costruendo un ospedale a Haiti: a un certo punto l’impresario ha avuto un esaurimento nervoso e ha abbandonato l’isola – in questo caso la soluzione era di rimpiazzare l’impresa di costruzione. Questo comportava costi addizionali non presenti nel budget originario ed era chiaramente la soluzione per il problema.
“Abbiamo un vantaggio rispetto ai funders tradizionali che devono scegliere un progetto da sostenere in mezzo a tanti altri: il loro cavallo deve vincere la corsa. Il nostro lavoro è assicurarci che tutti i cavalli riescano a concludere la corsa”
La maggior parte del nostro processo di selezione dei progetti si svolge in forma colloquiale – la documentazione formale che richiediamo serve più per accountability interna che per il processo decisionale. Il confronto diretto consente un iter molto più rapido ed è molto più complesso alterare la verità quando ci si parla di persona. Siamo in grado di porre domande specifiche: “Come mai non ci avete pensato? Perché pensate che questo risolverà la situazione?” Diventa meno una competizione per la donazione e più una discussione sincera: le non profit si rivolgono a noi in un momento di vulnerabilità perché c’è un problema e il nostro obiettivo principale è aiutare a identificare una soluzione concreta.
Quali sono gli eventi inattesi più frequenti nella vostra esperienza?
Abbiamo da poco pubblicato un report sugli ostacoli più comuni che le non profit si trovano a dover affrontare, declinati in variabili quali tipologia di progetto, settore, area geografica, ecc. In generale, sono quattro le categorie di Roadblocks principali:
- La non profit commette un errore che poteva essere prevenuto. Questo caso va oltre il nostro ambito di supporto e quindi i dati non sono presenti nel report.
- Acts of God or Market Economics (27,4% dei casi), quali modifiche legislative del governo, svalutazione monetaria, eventi climatici, emergenze sanitarie, violenza, ecc.
- Organization Misfortune (26,5%), ad esempio problemi con i partner, malfunzionamenti o rottura delle attrezzature, abbandono o malattia dello staff, ecc.
- La principale e più ricorrente categoria consiste nei Funders-Created Obstacles (46%). In quest’ambito la maggior parte dei problemi consiste in Cambiamenti nelle strategie del finanziatore (il donatore ha approvato un grant di tre anni ma al termine dell’anno 1 ha ritirato il proprio supporto, non perché la non profit è venuta meno ai termini ma per nuove priorità erogative). O può trattarsi di Ritardi nei pagamenti: il finanziatore ha approvato il progetto ma il bonifico ha un ritardo significativo. Succede molto spesso in particolare con i donatori pubblici e sono i principali casi in cui utilizziamo lo strumento del prestito: lo stanziamento è certo, si tratta solo di un problema di liquidità e di tempistica, ma il ritardo può mettere a rischio il progetto.
“Esistono alcune categorie ricorrenti ma gli ostacoli inattesi più frequenti sono causati dai finanziatori, pubblici e privati”
Cosa possono fare gli enti erogatori per rispondere a questi problemi?
Abbiamo pubblicato un toolkit con 10 suggerimenti specifici per i finanziatori per assicurarsi che le loro donazioni abbiano successo: in sostanza, per evitare che abbiano bisogno di noi! Alcuni sono molto semplici, e riguardano ad esempio la definizione del budget.
Quando si predispone un budget commerciale, si fa sempre in modo di avere liquidità a disposizione: se stai investendo in modalità profit $1 milione in una start-up, e poi questa torna a chiederti altri $50.000 per lanciare il prodotto sul mercato, la maggior parte degli investitori stanzierebbe la somma. Dire no in situazioni del genere è, nella nostra prospettiva, una distorsione del settore filantropico.
Sono due le opzioni principali che hanno a disposizione gli enti erogatori: mettere a budget un finanziamento extra attivabile ad-hoc o aumentare direttamente il contributo. La maggior parte delle non profit riceve donazioni vincolate che coprono a malapena il costo del progetto: se vuoi che le non profit siano nelle condizioni di gestire direttamente i loro rischi, devi fornire risorse pluriennali non vincolate. Se non lo fai, stai implicitamente trattenendo potere ma anche la responsabilità di aiutare le non profit con stanziamenti extra quando i problemi si materializzano.
Oltre ai contributi, gli enti erogatori possono parlare del rischio: il 76% delle fondazioni non chiede, in sede di richiesta del contributo, cosa potrebbe andare storto nel progetto. Se fondazioni e donatori non si fermano a considerare i rischi, è verosimile che le non profit non li evidenzieranno, con il risultato finale di aver perso un’opportunità per cercare di risolvere criticità chiave che potrebbero alterare, ritardare o distruggere un’iniziativa altrimenti di impatto.
“La maggior parte delle non profit riceve donazioni vincolate che coprono a malapena il costo del progetto. I finanziatori devono fornire risorse pluriennali non vincolate in modo che le non profit possano gestire i loro rischi, in caso contrario hanno la responsabilità di aiutare le non profit a risolvere il problema quando questo si materializza”